Wei Wei, La ragazza che leggeva il francese
Nella Repubblica Popolare Cinese degli anni ’60-‘70, guidata da Mao Tse Tung, era sufficiente appartenere ad una famiglia borghese per essere considerato un nemico. Guai, poi, a coltivare passioni personali non autorizzate dal Partito, come la letteratura, o il sogno di diventare medico per salvare i malati ed impedire ad altri di vivere un’infanzia malaticcia come la propria. Quello che ti attendeva era la “rieducazione”: il duro lavoro nei campi per allontanare i pensieri pericolosi dalla mente. A Wei Wei, però, la vita dà una seconda possibilità: c’è bisogno di un’interprete di francese, e lei viene scelta per studiarlo. Potrà quindi entrare in contatto con i meravigliosi misteri di una lingua tanto diversa ed affascinante, e, anche se clandestinamente – i classici della letteratura erano pur sempre vietati –potrà perdersi nella pagine di Hugo, di Balzac, di Flaubert, di Sartre, di Camus…
E noi che leggiamo dall’altra parte del globo viviamo al contrario la sua esperienza e, grazie ai suoi continui accostamenti, possiamo immergerci a nostra volta negli arcani di una lingua, di un pensiero, di un mondo che ci appare lontano e inarrivabile.
La ragazza che leggeva il francese è anche la storia di una liberazione, che conduce la protagonista alla scoperta dell’amore, un amore vero, vissuto all’ombra delle convenienze legate ai matrimoni combinati dai genitori.
Impossibile non pensare ad un altro romanzo che è intriso della stessa ambientazione: Balzac e la piccola sarta cinese, di Dai Sije, analoga vicenda di una rieducazione cinese in cui la letteratura francese è la finestra attraverso la quale scoprire un universo nemmeno sospettato, e in cui i libri di Balzac, rubati dai due protagonisti dalla valigia del malcapitato Quattrocchi, permettono al protagonista di far innamorare la piccola sarta, “la più bella della montagna”.
MB