Murakami Haruki, A sud del confine, a ovest del sole
Ciò che mi ha platonicamente fatta innamorare di Murakami Haruki consiste non solo nella sua accurata scelta di storie inusuali e accattivanti, la cui intimità e raffinata delicatezza rasentano quasi l’incredibile, ma anche e oserei dire soprattutto la sua scrittura ben costruita e, riprendendo la citazione del quotidiano britannico The Guardian, “così impalpabile e squisita che ogni cosa egli scelga di descrivere vibra di potenzialità simbolica”.
Ci tengo particolarmente ad approfondire e a soffermarmi su quanto ho affermato sinora: vi sono altri scrittori che apprezzo in maniera passionale, tuttavia la costante presenza di allusioni e simbolismi racchiusi persino in dettagli apparentemente banali e privi di spessore ed inoltre la precisione quasi analitica delle sensazioni, del vissuto e dei personaggi assolutamente colma di passione umana, sono tratti peculiari della sua penna.
La mano che chiude “A sud del confine, a ovest del sole” è una prospettiva di luce postera alla pioggia che silenziosamente bagna il mare e di cui nessuno si accorge, persino chi lo abita, e che raffigura in sè tutta la vita di Hajime, riallacciandosi miracolosamente al suono di un rito iniziatico, mosso prevalentemente dalla comprensione e dalla profonda comunione.
Hajime è il senso di inadeguatezza e di insoddisfazione che si materializza in un’attenzione esclusiva al proprio ego, incapace di liberarsi dalle sue serrature e di ascoltare chiunque provi a girarne la chiave. Il suo rigido isolamento emotivo, che fino ad allora non era stato scalfito neanche dall’amore totale dalla moglie Yukiko, viene indirettamente infranto attraverso la passione rinverdita e finalmente avverata per Shimamoto. Il suo esaudirsi è l’Haijime, inizio. Yukiko e la mano che finalmente riconosce.
Chiara Principe