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La sfida della gentilezza: intervista a R.J. Palacio

La sfida della gentilezza: intervista a R.J. Palacio

Si aspettava il successo enorme di Wonder?

Tutto quello che è successo è stato davvero inaspettato; non avrei mai creduto, dopo cinque anni, di essere ancora qui a parlare del libro. Ho avuto feedback da tantissimi lettori: si sono messi in contatto con me bambini con anomalie cranio-facciali come quella di Auggie, che usano Wonder a scuola per spiegare la loro situazione e i loro sentimenti, ma anche dai fratelli di questi bambini, che ovviamente si ritrovano nel personaggio di Via. Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è stata quella di ricevere lettere da lettori, anche di dieci anni, che mi dicevano di essere stati ispirati a essere più gentili dalla lettura del mio libro, e questa è una situazione che faccio fatica a descrivere, da quanto è meravigliosa. Il mio sogno è proprio quello di trovarmi davanti a una generazione che davvero ami sperimentare la gentilezza, e la consapevolezza di ciò che significhi essere gentili.

 

Come hanno accolto il libro le famiglie con bambini simili ad August? 

Da parte della comunità c’è stata subito un’accoglienza calorosissima al libro: lo hanno abbracciato, lo hanno fatto loro, mentre io al contrario temevo che mi avrebbero rimproverato di scrivere di qualcosa che non mi apparteneva, non avendo né io in prima persona un’anomalia cranio-facciale, né un figlio in questa situazione; per questo io desideravo una sorta di convalida da parte loro. Invece la comunità ha contribuito in maniera decisiva al successo del libro, considerandolo una sorta di bibbia. Tutti noi, da genitori, desideriamo che le persone siano gentili con i nostri figli; per questi genitori l’esigenza è ancora più profonda, ancora più vera. Anche gli insegnanti, fin dall’inizio, hanno capito che avevano tra le mani uno strumento che poteva dare un’apertura verso la gentilezza. Lo hanno utilizzato per trattare temi come il bullismo, e per governare le due forze che regolano il periodo adolescenziale: la gentilezza e il bisogno di adattarsi all’interno di una comunità. Questi due fattori hanno favorito da subito il successo del libro.

 

Com’è nato Wonder?

Il libro è iniziato in risposta a una situazione che io ho vissuto in prima persona, tra l’altro riportata nel romanzo, quando Jack Will racconta la prima volta che ha visto Auggie: io ero a prendere un gelato con i miei due figli, il più piccolo dei quali aveva tre anni, e vicino a noi c’era una bambina con una grave anomalia cranio-facciale. Il piccolo ha iniziato a piangere, perché aveva paura, e io a quel punto sono andata nel panico, perché temevo che la bambina potesse rendersi conto della paura di mio figlio, e ho ritenuto che la cosa migliore da fare fosse andarsene il più rapidamente possibile. Solo dopo ho realizzato che la mia fuga poteva far pensare ad una mia volontà di proteggere mia figlia dalla visione della bambina. Ci sono rimasta molto male, anche perché noi genitori siamo sempre alla ricerca di occasioni in cui insegnare comportamenti ai nostri figli: quella era una di queste, e io non l’ho saputa cogliere. La cosa migliore da fare sarebbe stata quella di andare dalla bambina, mentre mio figlio piangeva (naturale: tutti i bambini di tre anni piangono) e chiederle se il suo gelato le piaceva. In questo modo avrei mostrato a mio figlio che non c’era nulla da temere. Le famiglie della comunità mi hanno spiegato, poi, che la mia è stata una reazione comunissima: tuttavia, per loro è sempre molto doloroso fare i conti con la paura che questi bambini suscitano, mentre capiscono e accettano la curiosità come un fatto normale. Forse il nostro compito è proprio questo: trasformare la paura in curiosità attraverso la gentilezza.

 

Quali sono le domande che i bambini le rivolgono più frequentemente a proposito del libro?

Le domande più frequenti che mi rivolgono i bambini sono due: la prima è la domanda precedente, quella sull’ispirazione, e la seconda (non voglio rivelare troppo a chi non avesse letto il libro) è perché muore il cane. Fanno fatica ad accettarlo: stranamente non mi chiedono mai come mai muore la nonna, ma il cane sì. Poi mi chiedono cose molto concrete: come mai c’è un solo occhio sulla copertina, e quale sia il mio personaggio preferito. A quest’ultima rispondo sempre che è come chiedere ad una madre quale sia il suo figlio preferito: impossibile rispondere.

 

Sembra proprio, però, che il libro parli universalmente a molti ragazzi, al di là della sindrome specifica…

Sì, è vero, in effetti il segmento della popolazione direttamente coinvolto dal libro è davvero esiguo, e invece il libro ha avuto un successo universale, tanto da essere stato tradotto in 45 lingue. Questo è dovuto al fatto che non importa quale sia la differenza: Auggie è diverso. Lui in realtà si sente normale, ma è il mondo che lo fa sentire un diverso. Io ho ricevuto mail da genitori di figli autistici, di vittime del bullismo, o da genitori che sono stati bulli da giovani e ora vivono questo loro passato con grande rimpianto. A me piace descrivere Wonder come una meditazione sulla gentilezza, perché non riguarda solo una differenza fisica, ma è proprio una riflessione sul mondo e Auggie è uno strumento che permette di esplorare le diverse risposte che si possono dare alle differenze, proprio perché, nel suo caso, la sua differenza è talmente ovvia che non è possibile girare la testa da un’altra parte, è proprio la maschera che viene mostrata a tutte le persone che lo circondano, ed è anche una riflessione su come la gentilezza può influenzare il mondo in cui viviamo.

 

Come si è passati dal libro alla serie? Perché ha sentito l’importanza di riportare tanti punti di vista?

Quando ho scritto Wonder, volevo che quella fosse la storia di August Pullman, un anno della sua vita: sapevo che la storia avrebbe dovuto aprirsi il primo giorno di scuola e chiudersi l’ultimo. Di questo ero molto consapevole. Naturalmente la storia era raccontata soprattutto dal suo punto di vista, ma avevo bisogno di inserire anche altri personaggi che portassero il loro punto di vista su Auggie, che avevano delle cose da dire su di lui. Julian, in questo senso, non apparteneva precisamente al libro, lui è il bullo, e anche se io volevo inserire nel libro la sua prospettiva, di fatto mi sono resa conto che il suo problema è che non ha mai voluto davvero conoscere Auggie da vicino, e quindi non avrebbe avuto molto da dire, ma io sapevo che lui aveva una sua storia interessante che ho voluto raccontare a parte, perché i lettori non la conoscevano: Julian viene percepito come negativo, e io volevo aiutare i lettori a capire come mai lui si fosse comportato così. Analogamente è successo con altri personaggi. A questo punto, io credo di avere finito e di essere pronta per nuove storie, ma è vero che i ragazzi mi chiedono continuamente altre storie, come quella di Via o quella di Summer. Siccome mi dispiacerebbe molto deluderli, allora dico: “Forse”. Non è ancora detta la parola definitiva.

 

Il suo libro sembra riuscire in un intento molto difficile: trasmettere qualcosa che non si può imporre direttamente…

Sì, assolutamente, penso che la gentilezza non si possa insegnare né imporre. Credo che la si possa ispirare, e questo è il compito delle storie. Io credo molto nel potere delle storie sui giovani lettori. Non si può dire: “Sii gentile!”, ma si può raccontare una storia che ispiri a farlo, ed è per questo che ho voluto scrivere alla prima persona, perché volevo che il lettore si identificasse con Auggie.

Il lettore all’inizio non è del tutto consapevole delle proporzioni della diversità di Auggie e dei suoi difetti fisici, ma lo scopre solo a pagina 114. A quel punto l’immedesimazione è già avanzata: questa sorta di gioco di ruolo per cui loro sono stati Auggie fino a quel punto ha dato i suoi frutti. Bisogna scegliere di essere gentili, questa è stata la premessa del libro. La possibilità di scegliere la gentilezza rafforza i ragazzi e rende loro possibile affrontare qualsiasi difficoltà.

 

Perché un libro come questo non lo ha rivolto agli adulti? Sarebbe stato possibile, secondo lei?

Domanda interessante. Forse sì, però per me era importante scrivere per ragazzi. I ragazzi a quest’età, così delicata, di transizione, per la prima volta iniziano a scoprire chi saranno, iniziano a fare delle scelte importanti, che riguardano le persone che vogliono frequentare ma anche che tipo di vestiti vogliono indossare e che tipo di persona vogliono essere. Sono questioni di cui fino a poco tempo prima non dovevano interessarsi perché genitori ed insegnanti prendevano queste decisioni al posto loro. Per me quindi, in quel momento,  era proprio importante rivolgermi a loro, per aiutarli a prendere queste decisioni.

 

È in arrivo il film…

Sì, io ero molto spaventata, perché sarebbe stato facile farne un film strappalacrime. Invece i due produttori che ho scelto si sono dimostrati eccezionali nel rispettare il libro, pur con i cambiamenti necessari legati al cambiamento di linguaggio. Ci sono voluti quattro anni ma il risultato è straordinario. Il regista, Stephen Chbosky, è stato molto bravo a portare sul set un’atmosfera familiare, e pensare che nel film recita Julia Roberts, bè, e un sogno!

 

Traduzione di Sonia Folin.

 

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