L’incipit della settimana: Silvia Vecchini, Black Hole
Il treno arrivò lento, pesante. Dentro c’era poca gente. Lo guardai allontanarsi verso destra pensando che sarebbe stato bello salirci e andare via. Tagliava i campi bruciati dal sole. Fu in quel momento che la vidi. Una casa in costruzione da più di dieci anni. I lavori erano stati interrotti quando il proprietario aveva finito i soldi o l’impresa era fallita, non ricordavo più la versione corretta. Ma ricordavo bene il fatto del bambino che si era rotto le gambe cadendo in un pozzo nel terreno della casa. Si parlò di demolizione. Alla fine la casa rimase in piedi.
Guardai l’edificio.
Il profilo di cemento si stagliava nel cielo chiaro. Le finestre senza infissi erano piccoli occhi spalancati, neri. Mentre l’asta del passaggio a livello si alzava, iniziai a camminare. Non saprei dire perché. E mentre camminavo non staccai mai gli occhi dalla casa, nemmeno quando lasciai l’asfalto e misi i piedi sul terreno secco per procedere in mezzo all’erba ingiallita.